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venerdì 22 maggio 2015

Una serata con “Les Caves de Pyrene”



Il mondo del vino a volte è una Babele,popolata da estremismi di ogni sorta. Ognuno fa a chi grida più forte;ognuno sembra perso nelle pieghe di un insindacabile fortilizio di punti di vista e smarrito nelle labirintiche spire del proprio gusto. Non si è ancora capito che avere opinioni “certe”  è un limite e si rischia di fallire il punto:il conseguimento della piena conoscenza. Chi possiede e coltiva da tempo la passione per il nettare di Bacco sa che non troverà  pace fino a quando non avrà stanato  la verità  organolettica. E a pensarci bene non può albergare all’interno di qualche steccato: non può che essere un ambito vastissimo ,forse conchiuso ma onnicomprensivo. Così quando ci sembra di vagare senza un approdo nel mare sconfinato delle possibilità enoiche,ecco spirare una brezza nuova che prefigura una rotta inaspettata verso terre da esplorare ed acquistare alla propria esperienza. Affinità elettive allora si asserpano a quelle che si ritenevano  ispirazioni domestiche e poetiche incomplete e si fanno incontri,si aprono porte della mente e dei sensi di cui si ignorava l’esistenza. Questo mi accade ogni qualvolta bevo un vino,specie se per la prima volta. Per amorose suggestioni iniziano ad intrecciarsi parole e sensazioni recate dall’esperienza con le emozioni assicurate dalla presenza emotiva della curiosità,dote spirituale e caratteriale il cui valore è troppo spesso sottovalutato. Senza curiosità non c’è vita. E’ quella scheggia di follia che dà respiro e colore a qualsiasi mozione che viene da dentro,dal sottosuolo dell’interiorità.  E’ la curiosità a dare una chance a qualsiasi prodotto che aspiri ad una qualche valenza gustativa. Il vino è sempre interessante e foriero di riflessioni  anche nelle espressioni meno felici. Poi,se proprio non dovesse parlarci,si può passare la mano.
Le mie corde adesso vibrano per i vini che cercano l’eldorado nella buccia,ove si annida il meglio,e mutuano da essa una marcia in più nei profumi e nei sapori,nel conseguimento di una più alta e qualificata complessità,nel sempre gradito e ricercato potenziale di longevità. Nella mia attuale stagione evolutiva sono rimasti al palo i vini bianco-carta,i rosati dal colore “buccia di cipolla di Tropea” e i rossi figli del legno ,delle sovraestrazioni, per intenderci  i “vinoni”. Ho da qualche tempo inaugurato lo splendido filone dei vini imperfettamente perfetti,umorali e viscerali prima che complessi,e soprattutto non necessariamente rispondenti a quelle menate preistoriche  sulla quantità e riconoscibilità delle nuances che un grande vino “dovrebbe” esprimere. Non m’importa di quanti e quanto riconoscibili sentori o sapori debba essere dotato o poterne indovinare vitigno e giacitura o stigmatizzarne lo stato evolutivo. C’è qualcosa di più grande: il godimento fisico e spirituale che se ne ricava. E chi ritiene che debba esserci qualcosa da imparare sappia che non c’è lezione più importante di questa.
Stasera,in occasione dell’evento organizzato da Massimo Lanini nel suo ristorante “Le Giare” di Bari e che vede protagonisti Christian Bucci nell’insolita veste di chef(fantastiche la pizza,le animelle con carciofi maritati, il coulis di cachi, gelato al pistacchio, marron glacèe, meringa…) e “Les Caves de Pyrene”, ho  voglia di uscire allo scoperto. Il vino fruga dentro ai ricordi e di laggiù tira fuori esperienze,immagini,fatti di cui non era rimasta apparente traccia. Quando si giace sovraccarichi di memorie enoiche e ci si accosta ad un vino,l’arte della maieutica la svolge lui,il nettare che si ha davanti! E’ lui che rimette in ordine una valigia traboccante  di nozioni e sensazioni che per neutralizzarla e contenerla non basterebbe neppure il tentativo di adagiarvisi sopra. Fatta chiarezza con la forza della realtà organolettica,si può cominciare ad elaborare il racconto enoico. E’ il Piemonte stasera a “miracol mostrare”. Quattro gli interpreti fra i più valenti  dell’intero panorama vitivinicolo italiano:  Fabrizio Iuli di Cascina Iuli  con la Barbera “Umberta” 2012 e il Pinot Nero “Nino”  2011,Nicoletta Bocca di San Fereolo con un Langhe bianco 2009 e il Dolcetto 2009,Paolo Veglio di Cascina Roccalini con il Barbaresco 2010 ed Ezio Cerruti con il Moscato passito “Sol”. Partiamo da Iuli. Mai da vini riconducibili al territorio di Montaldo e della Val  Cerrina ,fra le montagne del Monferrato,erano scaturite simili emozioni . Nessuno aveva osato tanto: recuperare delle vecchie vigne abbandonate e abbarbicate  su declivi dalle pendenze severe ed  elevarle al rango dei migliori cru piemontesi. Fabrizio Iuli lo ha fatto,con l’estro di chi ha intessuto di sogni  la sua poetica. Tanti i suoi gioielli. Dalla bevibilità e dal carattere della Barbera si passa all’eleganza del Pinot Nero,al suo  charme fruttato e alla sua grandezza raffinata,nonché corposa e precoce . E se Biodinamica significa tra le tante cose vivere la propria terra e coglierne le caratteristiche diverse e uniche,la creazione di un Pinot Nero in purezza in una zona d’Italia così remota e misconosciuta è stato un capolavoro di attenzione,partecipazione, interazione  con la Natura ed il “genius loci” di cui va riconosciuto il merito solo ed esclusivo al vigneron. Grande Fabrizio e grazie Fabrizio! Hai saputo far cantare la terra con lo spartito del tuo cuore e della tua mente. Nel contempo,nello splendido scenario di lune e falò di pavesiana memoria del magico territorio di Dogliani, affini idealità hanno portato l’azienda San Fereolo a valorizzare la tradizione con il medesimo approccio di stampo biodinamico attraverso lo sviluppo di produzioni monovarietali e non da vitigni autoctoni e non : riesling+gewurztraminer, nebbiolo e su tutti l’ineffabile Dolcetto. Proprio quest’ultimo vinificato in purezza,il San Fereolo 2006, ha costituito uno dei vertici gustativi della serata e uno dei vini più emozionanti del lotto. Con questa enologia che non utilizza stabilizzanti di sorta,che non modifica il valore primigenio dei componenti di origine fermentativa ai fini di un miglioramento organolettico,che vira decisamente verso una scelta biodinamica radicale,Nicoletta Bocca ha prodotto le bottiglie che oggi ci hanno stregato. E questo perché,al di là del riscontro sensoriale,ha saputo riversare nei suoi vini qualcosa di più e di meglio della mera trasmissione di una tradizione di valori condivisi:ha saputo arricchirli e completarli  insufflandovi la sua personalità e permeandoli della sua voglia bifronte,d’avventura e di pace. “Coup de couer” di assoluto valore resta sempre il Barbaresco di Paolo Veglio. Di lui e delle sue radici ho potuto osservarne lampi e coglierne significati durante una breve visita nella sua bellissima Azienda,dominante il nastro lucente e argenteo del Tanaro. Quel che posso dire è che Paolo Veglio è uno di quei vigneron che ti conquistano per la sua cristallina empatia  e che costituiscono una speranza vivente per il mondo. Il suo vino non può che mutuarne franchezza,splendore,genuinità. E senza abbandonare il crinale della verità suggerita dai sensi e confermata dalle emozioni che dire del “Sol”  e del suo facitore Ezio Cerruti? Mi conquistò a Cerea la sua antica cortesia e la delicatezza del tocco . Oggi lo riscopro umanamente ancor più complesso e più completo mi pare anche il suo vino quasi per imitazione e contiguità. Adesso potrei parlare a proposito di ciascuno dei nettari degustati di vigneti come giardini e materia prima intonsa e perfetta ,di più o meno lunghe macerazioni sulle bucce,di fermentazione in acciaio e in legno,di frutti rossi e bianchi,fiori,pepe e pietra focaia,di freschezza e mineralità,di equilibrio ed eleganza ma stavolta il naufragar nella piacevolezza mi è dolce ed esaustivo in una deriva marcata da un senso di indistinzione. Stasera non voglio cedere alla tentazione del tecnicismo e del colorito iper-descrittivismo. Senza fingermi in altri pensieri voglio solo godere . Dei vini e della compagnia di uomini e donne fuori dal comune,che sanno essere pietre ancora più preziose dei frutti della vite che tracimano        copiosi          dalle   loro    mani.     Dell’abbraccio caldo,consistente,equilibrato,integro del più sublime dei liquidi odorosi. Ad altri cronisti più valenti  lascio quel che troppo spesso risulta essere uno stucchevole snocciolamento delle caratteristiche organolettiche dei campioni bevuti,a volte freddo,a tratti magniloquente in funzione della misura dell’Ego del narrante. Mi riservo,invece e tutto, il privilegio di annunciarvi l’estasi testè provata: il miracolo del vino come dispensatore del sommo piacere ed elemento corale e gregario insuperato ed insuperabile,si è ancora una volta compiuto.
Rosario Tiso


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