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domenica 26 aprile 2015

Vino, bevanda piacevole



Quando un uomo finisce per servire le sue idee, conosce il tempo della cecità della fede. Certi amanti del biodinamico sarebbero capaci di incensare vini pieni di difetti e poveri di qualità per il solo fatto che interpretano alla lettera certe filosofie produttive. A me, sinceramente, interessa che il vino sia soprattutto piacevole. Certamente senza ricorrere a stregonerie. Ma che sia tipico, che abbia la struttura per sfidare i decenni, che interpreti pedissequamente la tradizione può  non bastare. Se non dà emozione, e non riesco ad immaginare un’emozione disgiunta da una profonda sensazione di piacevolezza, non serve a niente. Arduo godere di  quei vini rancidi ai limiti della bevibilità che richiedono l’attesa perché subentri l’assuefazione ad ammansire i sensi e a cancellare difetti e asperità. O bere quei vini spogliati dal tempo e spacciati per fini  ed eleganti, quantunque magri ed eterei, anche se sono associati a nomi altisonanti e mitici. O quelle bevande iperacide che tagliano la lingua come lame o la anestetizzano con i loro tannini uncinati. Si può mai considerare “freschissimo”  un vino del 1982, come leggevo tempo fa in un blog? Questo favoleggiano certi degustatori che spesso, a dispetto della loro giovane età, pensano “vecchio”. Sicuri che il 99,99% dei lettori non potrà smentirli, non potendo accedere ai ricercatissimi  nettari  in questione. Quel che mi appassiona è che un vino sappia  abbinare la struttura importante, la ricchezza di frutto, la godibilità piena da giovane  ad un’eventuale ricchezza di sfumature da acquisire  con l’invecchiamento. Che non deve essere un’assoluta necessità ma, se ne vale la pena,  la curiosità di vedere come un prodotto così vivo, poderoso, palpitante può evolversi  col passare del tempo. Un vino che ti faccia esclamare: “E’ proprio l’Ambrosia, il nettare degli Dei”.  Quante volte l’abbiamo detto o sentito dire, parlando di un vino  capace di emozionare, di appagare, di indurre all’elucubrazione mentale, persino di fondere  in un dato momento caratteristiche non rintracciabili in altri campioni e considerate antitetiche: perfezione tecnica e naturalità, eleganza e possanza, levità e consistenza. Ma parlare di un vino che rasenti la perfezione schiude altri significati più complessi e profondi. Ci rimanda al sogno dell’autentico vigneron, all’antichissimo desiderio dell’uomo di realizzare l’immigliorabile vinicolo, con fatica, abnegazione, creatività. E l’uomo rimanda a sua volta all’eterno fattore, al suo operato nel dispiegare l’universo.
Poiché senza Dio l’uomo non è in grado di sognare, ma senza uomini l’universo sarebbe solo un gelido creato .Produttore e degustatore si perdono nello stesso vagheggiamento. I loro  sogni sono necessariamente complementari. Il grande vino è un sogno realizzato.
Ma è solo sul tuo silenzio, sul  silenzo dell’intelletto, che il vino parla. E parla la lingua degli angeli. E parla di una bontà senza “se” e senza “ma”, non differita ma presente già nel bevante.
Rosario Tiso


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