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giovedì 9 aprile 2015

Titolo 2006



La gente crede solo a quel che sa già e ama confluire in alvei già solcati da innumerevoli intelletti. Guai a non fornire loro qualcosa di consueto che li faccia sentire a casa propria. Ogni originalità è vissuta come una frustrazione. Anche in un mondo in continua trasformazione l’animo umano tende ad arroccarsi sulle sue posizioni ed ambisce a poche ed essenziali conferme. In campo vinicolo ciò costituisce una iattura. Tentare nuove declinazioni del gusto sperimentando le infinite combinazioni che madre natura offre è una prospettiva difficilmente praticabile e ancora di più, per chi fa critica enologica, tentare nuove chiavi di lettura del “romanzo” vino. Così il “vigneron” dal pensiero indipendente è messo sulle prime in un “angolo” dagli esperti e dal mercato, salvo poi essere riabilitato sull’onda di una qualche transeunte marea modaiola. Se non si è un gigante come uomo e produttore alla stregua, per intenderci, di un Josko Gravner, la risacca culturale può uccidere. Al “contadino” di Oslavia il coro delle lamentazioni iniziali sulla svolta “caucasica” non  è interessato granchè. Adesso si fa a gara ad osannare la sua lungimiranza e perseveranza, ma sarei pronto a giurare che intimamente a molti di quanti oggi lo esaltano non piacciono i suoi vini. La condizione “sine qua non” per apprezzare i “nettari” di Gravner è condividerne profondamente la poetica. E credo che sia un percorso fatalmente esoterico. Ma non è la distanza dei luoghi, la difficoltà dell’azione o l’esotismo dello scenario  a determinare l’importanza di un impresa. Anche da presso si annida la possibilità dell’avventura. Anche senza conclamati eroismi. Occorre saperla riconoscere. Occorre saperla afferrare.
I colori del vigneto lucano sono forgiati dal sole. Nitidi, pieni, fitti di una grana pulsante d’energia. La bruna terra, gravida di humus, accoglie il verde brillante dei tralci  primaverili, sotto lo smalto azzurrino di un cielo tersissimo. Sullo sfondo, il richiamo alla fonte di ogni vita, l’acqua, nell’arcano profilo di un pozzo. In un simile  contesto, nella vocata contrada Solagna del “Titolo” che sovrasta Barile in provincia di Potenza, prende vita l’omonimo nettare, un aglianico in purezza. La fattrice, una fascinosa ragazza dei nostri tempi: Elena Fucci.
L’aria domenicale è percorsa da un profondo silenzio, rotto soltanto dal chiacchiericcio dei passanti nei loro consueti caroselli. Nel dorato abbraccio del sole meridiano rare presenze bordeggiano strade semideserte. Al wine-bar  Cairoli di Foggia, vibrante della placida animazione festiva, è arrivato il “Titolo” 2006. Già bevuto  un anno fa, mi colpì per la qualità della beva; ma ero distratto da altre priorità e non ne afferrai pienamente l’anima, che per un vino è la sintesi perfetta  fra gli umori del “terroir” e quelli dell’enologo. In verità gli appassionati foggiani aspettavano il pluridecorato 2007,ma l’esperienza mi ha spesso suggerito che quando c’è, l’anima del vino prevale sulle contingenze dovute ad annate più o meno favorevoli. Mi sono perciò deciso a degustarlo ancora, con più attenzione, con più trasporto. Quel che mi ha subito abbagliato è  stata la sua diversità. Ne ho bevuti di aglianici, spesso eccellenti. Ma il “Titolo” è senza alcun dubbio il più femminile e suadente di tutti. Si direbbe quasi atipico nella sua setosa filigrana. I profumi poi tessono  un’odorosa alcova di minuti frutti rossi e spezie, percorsa da strali di mineralità. La glicerina dipana copiosa i suoi velluti. A detta di Elena sarebbe persino un po’ spigoloso e acerbo. Francamente non me ne sono accorto. Da alcol e tannini non procedono asperità. E’ già perfettamente sferico e in bocca disegna ampie e carezzevoli volute. Elena Fucci ebbe a dire, riguardo ad entusiastiche congratulazioni piovutele addosso da ogni dove per la folgorante messe di successi ottenuti di recente, che le sembravano eccessive. Direi piuttosto che sono il giusto e riconoscente tributo a chi è ancora capace di emozionare in forza della sua intelligenza e di una solida individualità. In Lei e nel “suo” vino l’irripetibile miracolo dell’unicità si è ancora una volta compiuto. Questi sono i “campioni” che salveranno il mondo dall’omologazione e i sensi dall’appiattimento. Vini che avverti riflesso speculare di chi li forgia(dolcezza anziché amaritudine; morbidezza piuttosto che ruvidità…)e che osano sortite gustative inedite, partendo da vitigni che si vorrebbe sempre arcigni ma che sanno aprirsi a soavità insospettate, in passato sempre celate. A patto di saperle suscitare come Elena Fucci fa accortamente, modulando  le molteplici corde della sua raffinata sensibilità, da qualche felice vendemmia.
Rosario Tiso


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