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lunedì 16 febbraio 2015

Profit no profit, l’alleanza perversa

Profit no profit, l’alleanza perversa
Gli aziendalisti li chiamano ibridi organizzativi. Si tratta della sempre più crescente contaminazione tra settore profit e settore no profit, fenomeno che vede il primo perseguire finalità atipiche e proprie di un'organizzazione senza scopo di lucro e il secondo assimilare al proprio interno pratiche imprenditoriali proprie di un'impresa che persegue il profitto . L'umano egoismo ha finalmente ceduto il passo alla filantropia o, piuttosto, è l'ennesimo tentativo di battere la concorrenza?
DI FEDERICA FORTE - 12 FEBBRAIO 2015
Sul Web è esplosa la protesta degli internauti. Sotto accusa la campagna di reclutamento volontari di EXPO 2015. Il popolo della rete ha espresso la propria indignazioni al grido di “io non lavoro gratis per EXPO”. Lo stesso Frankie HI-nrj, che era stato designato ambasciatore della manifestazione milanese, ha fatto dietrofront sdegnato, preferendo non associare il proprio nome ad un’organizzazione che sfrutta il lavoro non retribuito di tanti giovani. “Il fatto che migliaia di ragazzi vengano fatti lavorare gratuitamente (ricevendo in cambio il privilegio di aver fatto un’esperienza…) a fronte del muro di miliardi che l’operazione genera è una cosa indegna per un Paese che parla di impulso alla crescita” ha affermato il rapper in un lungo post su Facebook.
Non si tratta della prima protesta virtuale. Quello che fa sorridere, o se volete, riflettere (e anche in un certo senso preoccupare dello stato di salute delle connessioni veloci) risiede nel fatto che la protesta sia esplosa in ritardo. La campagna di reclutamento andava avanti da 7 mesi, le candidature giunte sono state tantissime e i volontari, naturalmente, già selezionati.
Nell’asettico immobilismo della realtà nostrana, gli agitatori della protesta contro il lavoro volontario si scontrano con l’impossibilità di imprimere una svolta reale, e non solo virtuale, alla vicenda. Nulla evolve o muta, come nelle più famose novelle di Verga:i volontari lavoreranno, sì, ma senza un compenso.
E c’è dell’altro. Il chiasso mediatico creatosi intorno alla questione vergognosa del lavoro non retribuito per i tanti volontari a fronte di compensi milionari per pochi sembra non aver danneggiato minimamente la reputazione della manifestazione.E i volontari che dicono? Anche loro sdegnati (in ritardo)? Neppure per sogno. Nell’arena mediatica che è il Web, che unisce virtualmente gli internauti impegnati a sostenere il diritto alla retribuzione, si ergono anche le voci dei volontari. Questi, dal canto loro, fanno scudo alla protesta ribadendo il proprio impegno a lavorare, gratis, nella consapevolezza di star contribuendo a qualcosa di importante per il pianeta e l’umanità tutta. E se il fine è nobile, poco importa che non vi sia un compenso. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un epocale mutamento nel modo di fare impresa. Gli umani egoismi che fin dagli albori hanno contrassegnato l’attività imprenditoriale sono morti. Una nuova primavera vede le imprese prendere consapevolezza del proprio ruolo sociale all’interno della comunità nella quale operano, facendosi carico delle conseguenze della propria attività e minimizzandone gli impatti. Un numero crescente di imprese si è convertito alla CSR accollandosi un fardello più pesante di responsabilità, ponendosi tra i propri obiettivi finalità sociali e ambientali.
Gli aziendalisti chiamano queste imprese ibridi organizzativi. Si tratta di realtà che si collocano su entrambi i lati della linea di demarcazione profit/no profit, ovvero riducono questo confine assumendo mission sociali, come i soggetti no profit, ma producendo al contempo un reddito da attività commerciale per poter perseguire la loro missione, al pari delle imprese for profit le imprese sociali appunto, che per definizione possono essere considerate “organizzazioni ibride” .4
In altri termini, si tratta della contaminazione tra settore profit e no profit, fenomeno che vede il primo perseguire finalità atipiche e proprie di un’organizzazione senza scopo di lucro e il secondo assimilare al proprio interno pratiche e convenzioni imprenditoriali proprie di un’impresa che persegue il profitto. Così, ad esempio, non è difficile rinvenire , anche nel nostro Paese, ONLUS che pur annoverando finalità sociali si comportano come qualsiasi altra impresa che debba accaparrarsi fette di mercato. Molte di queste acquistano spazi pubblicitari, trasmettono spot sul piccolo schermo, vendono gadget sotto l’occhio esperto di un marketing manager che coordina tutto questo. Specularmente, in un gioco di rimandi, le imprese che nascono per generare profitti si forgiano, nel corso del tempo, dell’etichetta di imprese socialmente responsabili. In taluni casi si tratta di stringere partnership con associazioni di volontariato, in altri di sostituire i vecchi packaging con nuovi imballaggi da materiale riciclato, o ancora di introdurre nella product-line prodotti green ed ecocompatibili. In ogni caso, aldilà delle iniziative singolarmente perseguite, l’intento dichiarato è uno solo: adottare un comportamento più giusto nei confronti del pianeta e dei consumatori.
Stando alla definizione di ibrido organizzativo, EXPO 2015 è dunque un ibrido. Con il tema “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” si è chiaramento distanziato dalle tante fiere di settore italiane o europee, avvicinandosi piuttosto alle (vere) organizzazioni no profit che si adoperano per fornire un aiuto concreto ai Paesi dilaniati dalla fame e dalla povertà. Appare chiaro che il tema, quasi poetico, è nient’altro che una vetrina per le allodole , ingegnosamente realizzata per attirare consenso e creare attorno all’evento un’aura di benevolenza. Dietro, però, nascoste abilmente alla vista si celano le stesse logiche imprenditoriali di qualsiasi impresa interessata al profitto.
Che la responsabilità sociale non sia un impegno genuino a cambiare rotta- rispetto al capitalismo famelico che divora risorse e che finisce per fagocitare gli individui stessi, che calpesta diritti e libertà in nome di quel principio all’autodeterminazione che non vuole né freni né limiti e tutto in nome del profitto- risulta nell’evidenza lampante che il concetto di sostenibilità ha basi fragili perchè si fonda su un’antinomia. Non ci può essere sviluppo sostenibile dove regnano le logiche del capitalismo insegna Serge Latouche, filosofo ed economista francese fautore della descrescita economica. “Lo sviluppo non è sostenibile perché si basa sulla distruzione delle culture e non soltanto sulla distruzione degli ecosistemi. Il concetto di sviluppo sostenibile è un concetto tossico(…)Come una chiave che apre tutte le porte è una cattiva chiave, uno slogan che conquista l’unanimità non può che essere uno slogan perverso.” L’idea stessa di una produzione illimitata in un pianeta finito e dalle risorse naturali limitate ed esauribili è pura follia. Per questo sviluppo e sostenibilità, afferma Latouche, non possono formare un binomio senza risultare dissonanti. Abbiamo perso anche questo crepuscolo.
L’alleanza tra profit e no profit , che avrebbe potuto rappresentare un genuino rinnovamente del modo di fare impresa ed un piccolo passo verso il cambiamento dell’intera società, si è rivelata invece falsa, altamente opportunistica, fonte di confusione, in definitiva pericolosa in quanto causa di disorientamento dell’individuo, nelle duplice veste di consumatore e di lavoratore. Solo in una società in cui profit e no profit si contaminano pericolosamente a vicenda si può arrivare a pensare di star lavorando gratis in vista di un fine nobile, quando così non è.

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